Aspettare un figlio di questi tempi non è cosa facile. L’epidemia da SARS-CoV-2 e l’isolamento forzato che molte donne sono state costrette a vivere rendono complicato affrontare con serenità questo importante momento della vita di una donna.
Dal momento in cui questa pandemia ha iniziato il suo corso è raddoppiato il numero di donne in gravidanza che soffrono di ansia e sono preoccupate per le possibili conseguenze dell’infezione sul feto.
E da poco sono stati approvati e sono in distribuzione i primi vaccini contro SARS-CoV-2, ponendo nuovi interrogativi sulla possibilità o meno di vaccinare le donne in attesa di un figlio o che stanno allattando.
In questa sezione cercheremo di dare informazioni aggiornate sui possibili problemi di una gravidanza in presenza di coronavirus, consigli per prevenire l’infezione e dare una risposta ai dubbi su una eventuale vaccinazione in modo da vivere con maggiore tranquillità la propria gravidanza.
Da segnalare che le informazioni su questo virus e sulle possibili conseguenze durante la gravidanza sono da considerare in continuo aggiornamento: gli studi a proposito sono tanti e aumentano rapidamente.
I Coronavirus sono una famiglia di virus ad RNA che possono produrre malattie lievi come raffreddore oppure gravi come la MERS e la SARS. Il loro nome deriva dalla forma a corona delle punte esposte sulla loro superficie.
I coronavirus umani noti al momento sono sette:
- 229E (coronavirus alpha)
- NL63 (coronavirus alpha)
- OC43 (coronavirus beta)
- HKU1 (coronavirus beta)
- MERS-CoV (il coronavirus beta che causa la Middle East Respiratory Syndrome)
- SARS-CoV (il coronavirus beta che causa la Severe Acute Respiratory Syndrome)
- 2019 Nuovo coronavirus (2019-nCoV) indicato adesso come SARS-CoV-2, causa della COVID-19 (COrona VIrus Disease)
L'ultimo, indicato all'inizio come 2019-nCoV, ed ora denominato SARS-CoV-2, è stato identificato a dicembre del 2019, in seguito alla segnalazione di un focolaio di polmoniti nella città di Wuhan, nella Cina centrale. Ad oggi sono più di 100 milioni i casi registrati in tutto il mondo, con più di 2 milioni di morti.
Il virus SARS-CoV-2 è un virus a RNA, di forma sferica, con un genoma di circa 30 kb (30.000 basi). Le proteine strutturali del virus sono quattro: la proteina spike (S), la proteina di membrana (M), la proteina envelope(E) e la proteina del nucleocapside (N). Di queste è la proteina spike, presente in abbondanza sulla superficie virale, a svolgere un ruolo chiave nella sua patogenesi.
La sindrome da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) è indicata con il nomeCOVID-19: la malattia si è diffusa in tutto il mondo velocemente tanto da essere classificata come una pandemia.
Il virus SARS-CoV-2 passa nell’organismo umano attraverso le mucose delle vie respiratorie e degli occhi, portato da goccioline, aerosol oppure per contatto con le mani. Altra fonte di infezione potrebbero essere le feci, ma raramente.
La malattia si presenta con sintomi variabili, da moderati a molto gravi, inoltre il virus può essere presente in individui asintomatici ogià prima della comparsa dei sintomi. I sintomi principali comprendono febbre, tosse e difficoltà respiratorie. Nelle forme più gravi si può avere polmonite, sindrome respiratoria acuta, insufficienza renale e morte.
Oltre ad attaccare il sistema respiratorio il virus colpisce altri organi determinando, in alcuni casi, gravi sintomi. In genere le persone colpite dal virus presentano sintomi lievi e guariscono facilmente, ma i più anziani e quelli con altre malattie (es. ipertensione, diabete, malattie cardiovascolari e cancro) possono avere sintomi gravi con esito letale.
Dopo l’infezione delle cellule umane il virus inizia a riprodursi: aumenta il numero di particelle virali e di conseguenza anche il suo materiale genetico si moltiplica. Durante queste fasi di sintesi di nuovo materiale genetico possono aversi dei cambiamenti (mutazioni) che danno origine a forme di RNA modificate. Un gruppo di coronavirus che presenta lo stesso tipo di mutazioni costituisce una variante. Le varianti vengono identificate sequenziando il materiale genetico.
Nel corso di questa pandemia da SARS-CoV-2 sono state identificate alcune varianti che hanno preso il nome dalla nazione dove sono state individuate.
Quelle che al momento risultano più preoccupanti per una loro possibile maggiore pericolosità sono tre:
B.1.1.7 : la variante inglese, che si pensa aumentare l’infettività del virus fino al 50% grazie a numerose mutazioni a livello della proteina spike. La variante si diffonde velocemente e sembra essere più letale del virus originale. Al momento è stata rilevata in oltre 80 nazioni.
B.1.351: la variante sudafricana preoccupa perchè negli studi clinici i vaccini avrebbero mostrato una minore capacità di protezione nei confronti di questa forma modificata. Le mutazioni interessano la proteina spike. Al momento è stata rilevata in 24 nazioni.
P.1: la variante brasiliana, simile per mutazioni alla variante sudafricana, potrebbe indebolire l’immunità acquisita con altre varianti. Al momento è presente in numerose nazioni, soprattutto nell’America meridionale
Le donne durante la gravidanza sono più suscettibili alle infezioni virali, come risulta dai dati relativi alle epidemie influenzali stagionali: le donne in gravidanza si ammalano di più e il decorso della malattia risulta più grave. Comportamenti simili sono stati rilevati nel 2009 durante l’epidemia da virus influenzale H1N1 e durante le passate epidemie da SARS e MERS. Malattie che si manifestano con febbre alta inoltre sono associate a possibili difetti alla nascita, come difetti del tubo neurale.
La maggiore suscettibilità delle donne in gravidanza verso le infezioni virali è correlata a cambiamenti fisiologici nell’organismo femminile, che riguardano soprattutto il sistema respiratorio e quello immunitario.
I cambiamenti ormonali durante la gravidanza determinano cambiamenti a livello anatomico: rilassamento dei legamenti delle costole, spostamento in alto del diaframma in seguito all’aumento dell’utero (primo trimestre) e accrescimento del diametro della cavità toracica (terzo trimestre). Ciò riduce l’ampiezza dei movimenti respiratori, aumentando la frequenza della respirazione e di conseguenza la quantità di ossigeno inspirata.
Le donne in gravidanza inalano più aria nello stesso periodo di tempo: in un ambiente in cui è presente il virus è quindi più probabile che una donna in gravidanza si infetti, rispetto alla popolazione generale. In aggiunta, cambiamenti nella mucosa del naso possono favorire l’adesione del virus nelle vie respiratorie superiori.
A livello immunitario una gravidanza efficace deve comprendere una buona tolleranza verso il feto che cresce. Essendo circa metà del genoma embrionale di origine paterna il feto potrebbe essere riconosciuto “estraneo” dal sistema immunitario materno che, per tale motivo, va incontro a tutta una serie di complicati processi per assicurare l’“accettazione” del feto, e tali cambiamenti possono rendere la donna più suscettibile verso alcune malattie infettive: diminuisce il numero delle cellule T nel sangue e la loro attività, quindi la donna si ritrova con meno difese.
Se si pensa di avere contratto il virus o si è venuti a contatto con casi sospetti o positivi all’infezione la prima cosa da fare è contattare il medico ed eseguire subito un test diagnostico specifico per il virus SARS-CoV-2.
Esistono al momento tre tipi di test: i test molecolari, quelli antigenici rapidi e quelli sierologici.
Il test molecolare è quello più usato: si tratta della RT-PCR (Real-Time Reverse-Trascriptase Polymerase Chain Reaction) su campioni prelevati dalla mucosa della gola e del naso (tampone oro-faringeo o nasale), un esame di amplificazione del materiale genetico del virus (in questo caso RNA) e al momento risulta quello più attendibile anche se richiede più tempo per la sua esecuzione (qualche ora), personale esperto e strumenti idonei.
Il test antigenico rapido è più veloce, non ha bisogno di personale specializzato, rileva la presenza delle proteine virali sempre su tampone orofaringeo o nasale e deve, nei casi di positività, essere confermato dal test molecolare. I test antigenici di ultima generazione sembrano essere più affidabili anche se nel dubbio è bene eseguire sempre un test molecolare con RT-PCR.
Il test sierologico ricerca invece anticorpi specifici del siero, IgG e IgM. La presenza di IgG indica una precedente infezione mentre la presenza di IgM una infezione recente o corrente: la presenza di anticorpi fornisce indicazioni sul contatto con il virus ma non può dirci se l’infezione è ancora in atto o meno. In ogni caso i test sierologici devono essere confermati da un test molecolare con RT-PCR su tampone oro-faringeo. L’assenza di anticorpi non significa che l’infezione non possa essere in una fase iniziale e quindi che l’individuo sia comunque contagioso.
La diagnosi potrà poi essere confermata da TAC del torace e altre analisi cliniche. In alcuni studi la TAC del torace a basso dosaggio ha mostrato di individuare lesioni a livello polmonare, segno dell’avvenuta infezione, prima che i test molecolari rilevassero positività al virus.
Come abbiamo visto la gravidanza può aumentare il rischio di infezione da virus respiratori sia per le donne che per i feti. Nel caso del virus da SARS-CoV-2 l’insieme delle evidenze suggerisce che la gravidanza non aumenti il rischio di infezione rispetto alla popolazione generale, anche se uno studio riporta un tasso più elevato d’infezione nelle donne incinte rispetto alla popolazione della stessa età.
Secondo il rapporto dell’ISS “Indicazioni ad interim per gravidanza, parto, allattamento e cura dei piccolissimi di 0-2 anni in risposta all’emergenza COVID-19” il rischio di malattia grave con ricovero ospedaliero non sembra aumentare durante la gravidanza,
È importante in ogni caso seguire con attenzione le raccomandazioni delle autorità sanitarie per limitare il contatto sociale, per evitare l’esposizione al virus e minimizzare il rischio di infezione:
- lavare spesso le mani con acqua e sapone o detergenti idonei,
- non toccare il viso (occhi, naso e bocca) con le mani,
- mantenere la distanza consigliata dalle altre persone (circa due metri),
- indossare idonea mascherina quando si esce da casa o in presenza di persone se non si riesce a tenere la distanza di sicurezza,
- pulire le superfici con cui si viene a contatto,
aprire spesso porte e finestre per far circolare l’aria.
Le donne in gravidanza positive al nuovo coronavirus, in presenza di sintomi lievi e moderati, devono rimanere a casa ed essere seguite dal medico: la decisione di un eventuale ricovero in ospedale dipenderà dalla valutazione medica della gravità dei sintomi, l’eventuale presenza di altre malattie, e lo stato clinico generale. Se i sintomi sono più gravi sarà necessario il ricovero in ospedale, il controllo continuo del feto nei casi più critici, la misura del livello di ossigenazione materna, TAC a basso dosaggio per la valutazione delle complicanze polmonari e l’eventuale ricorso a trattamenti farmacologici considerati utili dai medici.
È importante che la donna riceva informazioni adeguate sui possibili sintomi di peggioramento anche per il feto: in caso di segni negativi la donna deve informare il medico e/o recarsi subito in ospedale.
Importante il riposo ed un adeguato supporto nutrizionale. I trattamenti con farmaci antivirali sono da considerare con cautela non essendoci molti dati relativi alla loro sicurezza in gravidanza: le donne in gravidanza sono “orfane di farmaci”. Il numero di farmaci efficaci che possono essere usati in gravidanza in donne affette da altre patologie é molto limitato. Ed è spesso molto difficile quantificare il passaggio del farmaco dalla madre al feto e i suoi possibili effetti indesiderati.
Per i casi più gravi saranno seguite le procedure utilizzate nel resto della popolazione con ricovero nelle Unità di Cura Intensiva, ventilazione meccanica se necessaria e altre terapie di sostegno. La salute del feto sarà valutata dal personale sanitario che, in caso di infezione grave della madre, potrebbe decidere di anticipare il parto.
Vengono raccomandate le vaccinazioni previste in gravidanza per l’influenza e la pertosse.
Le donne potranno essere dimesse dall’isolamento quando:
- la temperatura del corpo è normale per almeno tre giorni consecutivi e i sintomi respiratori sono migliorati;
- c’è evidenza di riassorbimento delle lesioni essudative acute all’esame radiologico del torace;
- almeno due test consecutivi di RT-PCR con intervallo di almeno un giorno diano esito negativo;
- non ci siano problemi da un punto di vista ostetrico
In presenza di sintomi di malattia acuta, viene consigliata una ecografia del feto, 14 giorni dopo la guarigione.
Durante la gravidanza le difese immunitarie della donna si abbassano rendendola più vulnerabile alle infezioni virali, compresa quella da nuovo coronavirus.
In generale le donne in attesa, positive per la COVID-19, non sembrano mostrare sintomi più gravi rispetto alle donne non in attesa: nella maggior parte dei casi sono asintomatiche o con sintomi lievi. Esiti avversi durante la gravidanza sono considerati poco frequenti. Ma altri dati sembrano indicare il contrario.
Una revisione sistematica che includeva un totale di 114 donne in gravidanza con diagnosi di COVID-19, nel terzo trimestre di gravidanza, affermava che le caratteristiche cliniche delle donne in gravidanza, positive al virus, erano simili a quelle della popolazione generale. Altri studi hanno confermato l’assenza di associazione tra gravidanza e gravità del decorso clinico della malattia, tempo di clearance del virus e durata del ricovero ospedaliero.
Negli studi condotti da gennaio a settembre del 2020 la maggior parte dei casi di COVID-19 in donne incinte, negli Stati Uniti, non progredivano verso una malattia più grave e, raramente, era richiesta l’ammissione alle terapie intensive o l’uso di ventilazione meccanica. Così risultava anche da studi condotti in Cina.
Più recentemente due studi sembrano però contraddire questi primi risultati. Uno studio, pubblicato a novembre 2020, che confrontava donne in gravidanza con donne non in attesa e in età fertile, ricoverate a Filadelfia per malattia grave da coronavirus, trovava che le prime avevano più probabilità di essere ammesse in terapia intensiva, di essere intubate e ventilate meccanicamente ed erano più a rischio di morbilità composita.
Nello stesso modo un’analisi di 400.000 donne negli Stati Uniti di età tra 15 e 44 anni con sintomi di COVID-19 trovava che le donne in gravidanza avevano più probabilità di essere ammesse in unità di terapia intensiva, di intubazione, ventilazione meccanica e morte.
Tra i fattori che possono aumentare i rischi di forme più gravi di COVID-19 sono da considerare l’età delle donne, quelle più giovani hanno minore probabilità di essere ricoverate in ospedale, e la presenza di altre malattie nelle donne in gravidanza, come diabete, asma, ipertensione cronica e obesità. Inoltre in Italia, secondo il rapporto ItOSS, sono le donne di cittadinanza non italiana ad avere un rischio più alto di polmonite da COVID-19.
I dati a disposizione aumentano ogni giorno e consentono di avere un quadro più chiaro delle possibili conseguenze della gravidanza sul decorso dell’infezione da SARS-CoV-2: il consiglio è comunque quello di fare attenzione e seguire le regole di base per ridurre al minimo il rischio di infezione.
Al momento i dati sugli effetti dell’infezione da nuovo coronavirus durante il primo e il secondo trimestre di gravidanza non sono molti e anche quelli relativi al terzo trimestre sono limitati e sempre in aggiornamento. Come si può rilevare dai dati presenti in letteratura, non sono stati riportati casi di trasmissione dell’infezione da madre a figlio in presenza di altri coronavirus (MERS-CoV e SARS-CoV). E tali dati sembrano consistenti con quelli relativi al nuovo coronavirus.
L’esito avverso più comune è il parto prima del termine ed un’aumentata prevalenza di basso peso alla nascita e di parto cesareo. Altre complicazioni ostetriche sono state segnalate ma sono comunque molto rare. In generale non sembra che la COVID-19 aumenti direttamente i rischi per la madre e il neonato anche se uno studio inglese suggerisce la morte prima del parto come una conseguenza diretta o indiretta della pandemia.
In Italia, secondo i dati riportati finora, non sembra esserci aumentato rischio di aborto, natimortalità o morte neonatale in presenza di infezione nella madre. Nella maggior parte dei casi, non sembra aumentare il rischio di preeclampsia (gestosi), così come di rottura delle membrane prima del travaglio.
Ma molto sembra correlato alla gravità dei sintomi: nei casi più gravi aumenta la frequenza di travaglio pretermine, rottura delle membrane prima del travaglio, nascita pretermine, preeclampsia (gestosi) e parto con taglio cesareo. Si tratta comunque di un numero limitato di casi e spesso si decide di anticipare il parto, per favorire il trattamento della malattia respiratoria della madre. L’anticipo della data del parto non permette di valutare l’effetto dell’infezione materna sulla crescita del feto.
Dati derivanti da epidemie con virus H1N1 e SARS suggeriscono un aumentato rischio di minore crescita del feto.
Ci sono state alcune rare segnalazioni di neonati con sofferenza fetale o che hanno richiesto ricovero in unità intensive di cura.
Non sembrano esserci evidenze di effetti teratogeni sul feto, mentre viene considerato un evento possibile un ridotto sviluppo del feto.
Tuttavia, sulla base dell’esperienza con altre infezioni come l’influenza, eventi avversi sul feto o il neonato legati ad un’infezione prenatale possono verificarsi anche senza trasmissione intrauterina. Infatti, un’infezione materna tende a promuovere una risposta infiammatoria fetale definita FIRS (fetal inflammatory response syndrome), caratterizzata da un alto livello di citochine infiammatorie nella placenta, come IL-1, IL-8 e TNF- α. Tali citochine, nei modelli animali, hanno mostrato avere un effetto sul sistema nervoso centrale e sul sistema circolatorio, determinando alterazioni morfologiche fetali, includendo espansione dei ventricoli e sanguinamento.
Il passaggio prima del parto
I dati disponibili sulla possibile trasmissione del virus attraverso la placenta sono limitati e in alcuni casi contraddittori. Mentre nei primi report non erano segnalati casi di trasmissione intrauterina, in seguito il numero di neonati positivi al SARS-CoV-2 è aumentato pur trattandosi di un numero limitato di casi.
Secondo uno studio condotto su 936 neonati da madri con coronavirus, 27 risultavano positivi dopo tampone nasofaringeo (il 3,2%), con positività anche in alcuni campioni prelevati da altre sedi come il cordone ombelicale, la placenta, il tampone anale e mediante analisi sierologica.
Altri dati mostrano casi di neonati positivi alla nascita soprattutto se le madri si erano infettate nell’ultimo periodo della gravidanza.
Secondo dati recenti il basso rischio di trasmissione del virus dalla madre al feto potrebbe essere dovuto alla ridotta espressione nella placenta della proteina ACE2, ritenuta la principale porta di entrata del virus nelle cellule, ma potrebbe anche essere correlata ad una sottostima del numero di donne positive al virus.
La trasmissione verticale del virus SARS-CoV-2 è comunque ritenuta possibile anche se
il rischio viene considerato come basso e infrequente da alcuni studi, mentre altri sembrano essere meno rassicuranti.
Il passaggio dopo il parto
I neonati possono acquisire una infezione in modi diversi dalla trasmissione intrauterina da madre al feto. Si parla in questo caso di trasmissione orizzontale. Ad esempio durante il passaggio nel canale del parto in un parto vaginale o attraverso l’allattamento al seno, dopo il parto, sebbene questi meccanismi sarebbero non comuni per un virus che si trasmette per via respiratoria.
L’infezione neonatale da virus respiratori può avvenire dopo il parto, mediante inalazione dell’agente infettivo negli aerosol prodotti tossendo, dalla madre, parenti o operatori sanitari o altre fonti in ospedale.
Dai lavori pubblicati circa la trasmissione perinatale e gli esiti respiratori in neonati di madri positive per COVID-19, oltre che di bambini con infezione documentata, a fronte di circa 2 milioni di casi di infezione da COVID a livello globale, il numero di neonati che ha sviluppato la malattia appare molto contenuto. L’infezione neonatale sembra essere non comune, generalmente trasmessa in epoca post natale e associata a esiti respiratori e decorso favorevoli, rispetto alla popolazione adulta.
Nella maggior parte dei casi la decisione sui tempi e le modalità del parto dovrebbe essere presa su indicazioni ostetriche e non solo sulla diagnosi di COVID-19 nella madre. Le donne che si ammalano nel primo periodo della gravidanza e poi guariscono non dovrebbero modificare tempi e tipo di parto.
Se invece c’è sospetto o conferma di infezione nel terzo trimestre è ragionevole tentare di ritardare il parto, al fine di ottenere un risultato negativo al test per il virus, se ciò è possibile, in modo da limitare la trasmissione del virus al neonato.
Una diagnosi di COVID-19 non dovrebbe comunque essere una indicazione assoluta per anticipare il parto.
Anche nel caso del tipo di parto, se vaginale o cesareo, la scelta non dovrà essere influenzata dalla positività al virus ma dipenderà soprattutto dalla gravità della malattia nella madre.
La scelta dovrà essere presa insieme alla donna, considerando i suoi desideri e naturalmente le condizioni di salute della stessa,
In presenza di sintomi gravi è probabile che si preferisca il parto cesareo e che si anticipi la data del parto per favorire il trattamento della madre ed evitare possibili danni al neonato. Questo non esclude la possibilità di partorire naturalmente, se le condizioni lo permettono. La decisione naturalmente sarà presa dal personale che segue la donna in gravidanza in ospedale, considerando fattori di rischio e condizioni cliniche di madre e bambino.
Da evitare il parto in acqua per le donne con infezione da SARS-CoV-2 e sintomatiche, in quanto vi è evidenza di trasmissione del virus per via fecale, mentre il parto in acqua non è controindicato per le donne positive ma asintomatiche.
Al momento vari studi mostrano che neonati nati sia da parto vaginale che cesareo risultavano negativi al virus dopo la nascita. Non si riscontrano inoltre differenze nell’età gestazionale, nell’incidenza di emorragia post-partum (EPP) e tasso di episiotomie rispetto alle donne non affette. Non si registrano differenze nel peso e nei tassi di asfissia alla nascita.
Avere una persona di fiducia al proprio fianco durante il parto è importante per moltissime donne. In questa situazione è però possibile che alcuni ospedali in Italia non permettano la presenza di un’altra persona durante il travaglio, nella sala parto o nei giorni successivi alla nascita, mentre altri ospedali possono dare la possibilità, seguendo naturalmente le regole di sicurezza per evitare pericoli per madre e bambino. Molto dipende dalla condizione clinica della donna ma soprattutto dai protocolli di sicurezza che i singoli ospedali hanno deciso di seguire.
Da segnalare che dall’OMS viene una indicazione favorevole alla presenza del partner accanto alla donna durante il parto.
In Italia le tre società scientifiche della ginecologia italiana (SIGO, AOGOI, AGUI), la Federazione Nazionale degli Ordini della Professione di Ostetrica (FNOPO) e la Società Italiana di Neonatologia (SIN) auspicano “la presenza del partner (o in sua assenza persona di fiducia della donna) in travaglio e durante il parto, dopo adeguato triage clinico-anamnestico con rispetto delle distanze ed utilizzo dei DPI” (vedi qui).
Anche in questo caso i dati sono limitati e prevale il principio di massima sicurezza. La possibilità di trasmissione del nuovo coronavirus attraverso l’allattamento al seno sembra comunque limitata. Sono stati riportati casi isolati di donne positive al virus nel cui latte era presente SARS-CoV-2, ma nella maggior parte dei casi i test fatti sul latte hanno dato esito negativo.
L’infezione da SARS-CoV-2 non è considerata una controindicazione all’allattamento: il rischio è correlato soprattutto al contatto con la madre attraverso le goccioline del respiro. Nei casi più gravi i neonati possono essere nutriti, da una persona sana, con il latte prelevato dal seno della madre o in altro modo secondo le necessità.
Da tenere presente che l’OMS si è espresso in maniera favorevole relativamente all’allattamento in caso di madre sospetta o confermata, al contatto pelle-a-pelle alla nascita e alla kangaroomother care. Questi i messaggi chiave per le madri che desiderano allattare ma temono di trasmettere il virus al proprio bambino:
- Il virus non è stato rilevato nel latte materno delle madri sospette o confermate e, a oggi, non ci sono prove della sua trasmissione con l’allattamento.
- I neonati e i bambini piccoli sono a basso rischio di infezione da COVID-19. Tra i pochi casi confermati nei bambini piccoli, la maggior parte ha avuto solo una malattia lieve o asintomatica.
- L'allattamento e il contatto pelle-a-pelle riducono in modo significativo il rischio di morte nei neonati e nei bambini piccoli e hanno benefici immediati e duraturi sulla salute e sullo sviluppo del bambino. Inoltre, l’allattamento riduce il rischio di carcinoma mammario e ovarico per la madre.
- I numerosi benefici dell'allattamento superano in modo sostanziale i potenziali rischi di trasmissione e malattia associate a COVID-19.
In caso si decida di allattare al seno, sono sempre da rispettare alcune regole come una buona igiene delle mani, indossare una mascherina, starnutire o tossire in un fazzoletto e buttarlo immediatamente lavando sempre le mani, pulire e disinfettare le superfici per prevenire la trasmissione del virus dalla madre al neonato.
Nei casi in cui non sia possibile l’allattamento diretto al seno, si consiglia la spremitura del latte come migliore alternativa, insieme all’uso di latte umano donato e di formula artificiale.
Per le madri che hanno interrotto l’allattamento è sempre possibile riprendere in qualsiasi momento
Il contatto madre-neonato è fondamentale nei primi giorni di vita del bambino: la separazione può essere un fattore di stress per la madre e bloccare la produzione di latte e può avere effetti negativi sul neonato. Ma l’emergenza coronavirus ha imposto alcune limitazioni: se la madre è positiva al virus la raccomandazione è di allontanare subito il bambino per evitare la trasmissione del virus, almeno fino alla guarigione della madre.
Secondo l’OMS però le madri dovrebbero in ogni caso rimanere accanto al neonato. Il CDC americano suggerisce di valutare caso per caso, sulla base di fattori come le condizioni cliniche della madre e del neonato, se l’infezione della madre è sospetta o confermata, se la madre desidera allattare al seno, ed altri fattori legati alla capacità della struttura ospedaliera di separare madre e bambino.
Il bambino può essere curato da un’altra persona, un membro della famiglia, a condizione che indossi le appropriate protezioni e si seguano le regole di sicurezza. Se la separazione non è possibile occorre porre una barriera fisica nella stanza e tenere la culla a distanza di almeno 2 metri.
Secondo il COVID Mothers Study, uno studio internazionale a cui hanno partecipato centinaia di donne in tutto il mondo, la separazione dai neonati ha determinato uno stato di angoscia nel 60% delle donne, positive al virus, a cui è stato impedito di stare accanto al proprio bambino. E circa 1/3 di esse non è poi riuscita ad allattare, alla fine dell’isolamento. Al contrario, nei casi in cui è stato permesso il contatto pelle a pelle e la presenza del neonato nella stanza, il rischio di ospedalizzazione è stato molto ridotto. Solo il 7,3 dei neonati, di età inferiore ai tre giorni, è risultato positivo al virus.
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